Funerali mafiosi
di Diego Gavini
I momenti rituali che segnano la vita di una comunità, dai battesimi ai matrimoni, rivestono, notoriamente, una funzione rilevante all’interno delle organizzazioni mafiose, che attraverso di essi veicolano messaggi e rappresentazioni del proprio potere e della propria adesione ai canoni della socialità. Vincolate da un lato dalla necessità di mascherare le proprie attività criminalità, ma dall’altro a trovare canali di riconoscibilità pubblica, le consorterie mafiose trovano in questi riti un’occasione per manifestare simbolicamente la propria posizione nella società.
I funerali rappresentano, all’interno di questo apparato rituale, il momento probabilmente più significativo. Questi, infatti, si inseriscono in un passaggio particolarmente delicato all’interno della vita degli aggregati mafiosi, che da una parte si trovano nella necessità di celebrare la figura dei propri leader carismatici, dall’altra devono affrontare la successione verso nuovi equilibri di potere. Tale passaggio si presenta d’altronde ancor più critico nei ricorrenti casi, peraltro ricorrenti, di morte violenta, dovuti o a una faida interna al gruppo o a uno scontro aperto con altri clan.
La necessità di affrontare le diverse esigenze della crisi aperta dalla morte di un capo, ha portato le organizzazioni mafiose a costruire, intorno al momento funerario, un apparato simbolico in grado di codificare ritualmente la trasmissione di messaggi verso tre diversi destinatari: il sodalizio mafioso stesso; le comunità più strettamente coinvolte nelle trame dell’underworld; il cosiddetto upperworld, ovvero il mondo della politica e dell’opinione pubblica.
In quella che assume i tratti di una vera e propria rappresentazione scenica, ogni elemento riveste una funzione particolare che contribuisce alla costruzione di un apparato simbolico complesso. La presenza di un numero elevato di officianti e la solennità della celebrazione ribadiscono il rapporto, che si vuole privilegiato, del defunto, e dunque dell’organizzazione mafiosa, con la sfera del divino e, più materialmente, con la gerarchia ecclesiastica. Le bare pregiate, le numerose corone di fiori e le macchine lussuose a comporre il corteo funebre, rappresentano uno sfoggio del potere anche economico, oltre che una valorizzazione dell’importanza del dipartito. Il corteo stesso, nel suo attraversamento delle vie del quartiere o del paese in cui si svolgono le esequie, ha l’evidente funzione di richiamare a raccolta la popolazione locale e segnare plasticamente la presenza sul territorio. La partecipazione di autorità pubbliche marca i legami che il clan intreccia con l’upperworld, mentre l’occupazione di ruoli particolari nella scenografia, come il sorreggere la bara o il porsi in testa al corteo, è un dato significativo nell’ottica della successione del potere o del mantenimento di determinate alleanze. Oltre al momento funerario vero e proprio, anche la scrittura di epitaffi, la pubblicazione di necrologi sui quotidiani e la distribuzione di santini celebrativi contribuiscono a definire la devozione verso il defunto e a lasciare un segno nell’immaginario collettivo.
Questo modello non è da considerarsi però immutabile e sempre uguale a se stesso: i messaggi che implicitamente ed esplicitamente vengono definiti mutano, infatti, a seconda del contesto. Due funerali sostanzialmente simili nelle dinamiche, per citare degli esempi, come quelli di Calogero Vizzini (13 giugno 1954) e di Giuseppe Di Cristina (1 giugno 1978), in cui ritroviamo la solennità religiosa della cerimonia, la partecipazione evidente dell’autorità pubblica e il coinvolgimento pieno della popolazione locale, il tutto sotto gli occhi della stampa, maturano in contesti diversi e nella loro costruzione sottendono obiettivi profondamente differenti. Se il primo caso rappresenta un’occasione di autocelebrazione delle cosche mafiose, la prima vera a livello pubblico nell’Italia del dopoguerra, tramite una figura particolarmente nota a livello di opinione pubblica, più di quanto realmente importante nei ranghi dell’organizzazione, il secondo si iscrive in un passaggio critico dovuto all’omicidio di Di Cristina. In questo caso la pomposità delle esequie sembra invece volta a dare un segnale di stabilità alla comunità di riferimento e, in maniera indiretta, agli oppositori del boss assassinato
La forza simbolica di tali rappresentazioni ha fatto sì che un tale “modello” funerario si sia diffuso in maniera omogenea all’interno delle differenti organizzazioni mafiose, entrando così nella subcultura di questi sodalizi e permettendone la riproducibilità e il consolidamento nel tempo, dalle «splendide esequie» (come scrive il 6 dicembre 1892 il quotidiano Il Mattino) del camorrista Ciccio Cappuccio, alla bara dorata di Vito Rizzuto in Canada nell’agosto del 2016; dai funerali di Girolamo Piromalli celebrati a Gioia Tauro nel febbraio del 1976 alla presenza dell’intero stato maggiore della ‘ndrangheta, a quelli di Giuseppe Di Giacomo che nel marzo 2014 sono stati accompagnati dalla chiusura dei negozi, in segno di lutto, nel quartiere La Zisa a Palermo.
A determinare ed alimentare la forza rappresentativa di questo modello, è intervenuto anche lo “sguardo” esterno di giornalisti, scrittori e registi cinematografici, i quali hanno colto in questa ritualità una pratica caratterizzante degli aggregati mafiosi e hanno contribuito a fissarne i tratti, in maniera anche stereotipata, nell’immaginario collettivo, come accade, ad esempio, con la narrazione dei funerali del personaggio di finzione letteraria, don Vito Corleone, nel romanzo di Mario Puzo, Il Padrino,
Se da un lato, dunque, forze dell’ordine, della magistratura e parti del mondo ecclesiastico hanno posto nel tempo una crescente attenzione nel fronteggiare la diffusione di queste pratiche per la loro ricaduta pubblica, dall’altro proprio la possibilità di utilizzare una simile rappresentazione per veicolare messaggi fuori e dentro il sodalizio criminale, fa sì che il ricorso a questo modello non solo sia ancora ricercato e praticato, ma si diffonda anche al di là di organizzazioni che si possono tradizionalmente considerare mafiose. Un esempio è dato dai funerali di Vittorio Casamonica, celebrati nella periferia romana il 20 agosto 2015, dove l’utilizzo di un apparato scenico volto alla spettacolarizzazione del rito e a un’occupazione fisica del territorio, appare inserirsi in consapevole continuità con il modello finora delineato.
Bibliografia
- Ciconte Enzo, ‘Ndrangheta, prefazione di F. Forgione, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2008.
- Dickie John, Cosa Nostra. Storia della mafia siciliana, Bari-Roma, Laterza, 2008
- Gratteri Nicola, Nicaso Antonio, Fratelli di sangue: la ‘ndrangheta tra arretratezza e modernità: da mafia agro-pastorale a holding del crimine: la storia, la struttura, i codici, le ramificazioni, Pellegrini, Cosenza, 2007.
- Gratteri Nicola, Nicaso Antonio, Acqua santissima, Mondadori, Milano, 2013
- Dino Alessandra, La mafia devota. Chiesa, religione, Cosa nostra, Roma-Bari, Laterza, 2010