Pizzini
di Deborah Puccio-Den
Nel dialetto siciliano, il termine “pizzino” indica un piccolo pezzo di carta che può servire come promemoria nell’uso quotidiano, oppure utilizzarsi nella trasmissione ordinaria di messaggi tra persone che si conoscono e intrattengono un legame di familiarità. Dopo l’arresto di Salvatore Riina (il “capo dei capi”), nel 1993, i “pizzini” sono stati scelti da Bernardo Provenzano, non solo come strumento comunicazione, nelle condizioni di contumacia e necessità di trasmettere gli ordini nelle quali si trovava il nuovo capo di Cosa nostra, ma altresì come mezzo efficace per imporre la sua leadership su tutta l’organizzazione.
Ciò fu fatto attraverso un uso abile della scrittura e dei modi della sua circolazione. Infatti, Provenzano, diventando il paziente scriba e la memoria vivente di tutti i contenziosi e gli affari in mano alla mafia siciliana, si assicurò che tutte le transazioni passassero attraverso di lui, garantendo anche delle funzioni di arbitraggio che lo portarono ad assumere progressivamente un ruolo di saggio consigliere (da lui sapientemente coltivato) e di giudice supremo (come si può desumere anche dal suo ricorso alla retorica giuridica). La messa in piedi di una rete di corrispondenti epistolari ebbe come effetto una ristrutturazione dei rapporti di forza e delle gerarchie interne, che si ridefinirono sulla base del grado di vicinanza dal capo, della frequenza dei messaggi scambiati, dei termini più o meno “affettuosi” utilizzati da Provenzano per rivolgersi ai suoi interlocutori, della loro inclusione o esclusione dal “giro” dei “pizzini”.
Bisogna sottolineare che questi messaggi non erano letti solamente dai loro destinatari, ma erano condivisi e letti ad alta voce durante le riunioni che i capi locali tenevano per discutere dei vari affari inerenti a Cosa nostra. Aver ricevuto un “pizzino” dallo “zio Binnu”, poterlo leggere pubblicamente, essere il portavoce di una decisione presa dall’alto, è già un modo di situarsi nello scacchiere mobile di Cosa nostra. Questo spiega anche l’”imprudenza” di tenere i “pizzini” sempre con sé, nelle proprie tasche, come una carta d’identità mafiosa, segno che fu presto riconoscibile anche dalle forze dell’ordine…
Queste ultime s’inserirono, infatti, nella faglia aperta dall’utilizzazione massiccia di un mezzo di comunicazione che lascia tracce, e decisero di seguire queste ultime per penetrare all’interno del mondo mafioso; arrestarono alcuni capi che avevano un ruolo chiave nella rete epistolare (come Antonino Giuffré) e che, divenuti collaboratori, consegnarono alla polizia interi “archivi” epistolari, e finirono per raggiungere, al termine di un lavoro investigativo durato ben tredici anni, il capo di Cosa nostra.
Le investigazioni furono condotte su diversi fronti. Una parte dei termini utilizzati nei “pizzini”, come i nomi dei loro destinatari, era in codice. Polizia e magistratura giudiziaria si avvalsero dunque di perizie grafiche e delle raffinatissime competenze di esperti del linguaggio mafioso per riuscire a decifrare il cosiddetto il “codice Provenzano”. I magistrati inquirenti intuirono quello che sarà poi confermato dagli studiosi della mafia siciliana: che quest’ultimo era un codice sociale, e cioè uno straordinario strumento per rimodellare le relazioni sociali all’interno di Cosa nostra, in crisi dopo il fallimento della logica stragista adottata da Riina.
Ricucire i pezzi di un’organizzazione dilaniata da una lunga politica di guerre intestine; ritornare a una presenza sotterranea e ad un inserimento quanto più invisibile nelle maglie della società, dell’amministrazione e delle istituzioni; imporre una supremazia tanto più incontestabile quanto più affermata con la “dolcezza” e mansuetudine di un capo che si pone non solo al di sopra degli interessi individuali, per il suo ruolo di mediatore, ma anche al di sopra degli interessi terreni, come qualcuno che agisce in nome di logiche dettate dall’alto – è quanto emerge dall’uso insistente di formule religiose, quasi rituali nella loro ripetitività, e dal riferimento esplicito alla Provvidenza Divina o ad altre figure e personaggi cristiani come fonti di ispirazione. Ecco tutto quello di cui questo infimo pezzo di carta è stato capace!
I “pizzini” sono degni di nota per un’ultima ragione: essi hanno capovolto l’immagine della mafia come “società senza scrittura”, secondo una visione arcaica della stessa, e hanno mostrato che i mafiosi non solo utilizzano la scrittura (e lo fanno già da lunga data attraverso lettere e messaggi intimidatori), ma sanno servirsi sapientemente di tutte le risorse sociali e politiche che essa offre. I “pizzini” hanno così non solo permesso di rinnovare lo sguardo portato dagli studiosi su Cosa nostra, ma anche di arricchire gli studi di antropologia politica e di antropologia della scrittura, sia in Italia che all’estero.
Riferimenti bibliografici
- Yves Cohen, Le siècle des chefs. Une histoire transnationale du commandement et de l’autorité (1890-1940), Parigi, Edizioni Amsterdam, 2013.
- Salvatore Palazzolo, Michele Prestipino, Il codice Provenzano, Bari, Laterza, 2008.
- Deborah Puccio-Den, 2011, « Dieu vous bénisse et vous protège ! ». La correspondance secrète du chef de la mafia sicilienne Bernardo Provenzano (1993-2006) », Revue de l’Histoire des Religions, 228-2, pp. 307-326.
- Deborah Puccio-Den, 2017, « Di sangue e d’inchiostro. Vincolo mafioso e religiosità », in Tommaso Caliò, Lucia Ceci, eds. L’immaginario devoto tra mafia e antimafia. Riti, culti e santi, Rome, Viella (coll. Sanctorum. Scritture, pratiche, immagini), pp. 119-136.
- Marco Santoro, La voce del padrino. Mafia, cultura e politica, Ombre Corte, 2007.