Curatore: Stefania Rimini
Antonio Parrinello, foto di scena di Quei ragazzi di Regalpetra, © Archivio Pirrotta 2011

Antonio Parrinello, foto di scena di Quei ragazzi di Regalpetra, © Archivio Pirrotta 2011

Quei ragazzi di Regalpetra: memorie di mafia

E se tutta la Sicilia era sporca di sangue, se lentamente l’asfalto beveva sangue dei morti ammazzati e il cemento ingoiava cadaveri, e l’acido scioglieva le carni, a Regalpetra si viveva tranquilli.
Vincenzo Pirrotta, Quei ragazzi di Regalpetra

Dopo il clamore suscitato da La ballata delle balate (2006), che in tutta Italia è stato accolto con un sentito tributo di pubblico e critica, Pirrotta non allenta le corde del suo ‘teatro civile’ ma continua a sviscerare i paradossi della sua terra distillando letture, drammi, performance e ruoli cinematografici. L’attenzione alle traiettorie e alle logiche distorte della mafia lo porta a misurarsi nuovamente con quel nodo di violenza e devozione che spesso è la radice delle stragi. Il secondo compiuto assalto alla ‘piovra’ siciliana è un’opera ibrida, che alterna canto e racconto grazie a una formula che lo stesso Pirrotta definisce «tragedia contemporanea», in cui il narratore epico si confronta con un doppio coro di donne e uomini. L’assunzione di una forma rituale fa sì che ancora una volta i fatti di mafia assurgano a una…

dimensione sacrale sebbene qui si tratti – rispetto ai toni della Ballata delle balate – di una sacralità per lo più stilistica. La densità retorica della Ballata, tesa a rappresentare le ossessioni del latitante, cede il posto infatti a un racconto corale, in cui è innanzitutto la comunità a essere protagonista.

Punto di avvio di questa nuova avventura è l’incontro col giornalista Gaetano Savatteri, autore di I ragazzi di Regalpetra, un romanzo in cui si intrecciano, con buon equilibrio, autobiografia, scrittura saggistica ed inchiesta. Il racconto di Savatteri scaturisce dal bisogno di fare chiarezza sulla reale consistenza ‘mafiosa’ del paese di Regalpetra, invenzione letteraria di Sciascia che trasforma la sua Racalmuto in una città di carta. Il libro è anche un omaggio allo scrittore, al rigore del suo ingegno, alla coerenza della sua parabola intellettuale, ma soprattutto è un modo per risarcire quanti, nella Racalmuto/Regalpetra degli anni ’80 e ’90, hanno saputo scegliere la via del bene e della giustizia, nonostante infuriasse intorno a loro una vera guerra di mafia. Il romanzo parte proprio dal resoconto della prima strage, compiuta in un giorno di festa, il 23 luglio del 1991, e procede poi a ritroso, attraverso una serie di prolessi e analessi, fino al faccia a faccia con i principali protagonisti di una terribile ‘stagione all’inferno’: Ignazio Gagliardo e Maurizio di Gati. Sono questi due ragazzi a scatenare – in seguito all’uccisione dei rispettivi fratelli Salvatore e Diego – una faida tra Cosa Nostra e i rivali della ‘quinta mafia’, la Stidda; l’autore segue le loro vicende con un misto di lucidità e compassione, ma non può fare a meno di confrontarsi con loro, di restituire l’amara verità di due vite annegate nel sangue.

Pirrotta si riconosce nello spirito del romanzo, condivide la necessità di non arrendersi alle distrazioni della memoria, e così decide di ridurre il testo per la scena, avvalendosi della consulenza e della collaborazione dello stesso Savatteri, che firma con lui l’adattamento. L’attore-autore riversa nella costruzione della drammaturgia la consuetudine con le forme del tragico, ricavando alcuni inserti corali di grande tensione stilistica ed efficacia scenica, mentre riserva per sé il ruolo di narratore, a mezza via fra performer monologante e cantastorie. Rispetto all’uniformità della Ballata, qui si sperimenta una doppia declinazione di stili: la poesia in musica del coro e la dizione tesa della voce narrante, con un impasto di lingua e dialetto che a tratti presenta qualche sbavatura ma che comunque raggiunge vertici di grande impatto.

Nel pieno rispetto delle convenzioni classiche il primo tratto dell’opera è una parodos che vede entrare in scena il coro dei ragazzi e delle donne di Regalpetra, divisi per genere ma intenti a cantare all’unisono una sorta di inno terragno, che celebra la natura minerale del piccolo centro siciliano. I ritmi stagionali sono segnati da un’economia che si attarda nello sfruttamento dei ‘carusi’, impiegati nelle miniere di zolfo a intossicarsi l’anima. L’ossessivo refrain del coro («Sali e zurfaru / zurfaru e sali») disegna un’atmosfera cupa, di muscoli piegati dallo sforzo, e fa da preludio al montare della violenza.

Dopo il primo movimento corale è il turno del narratore, che descrive la ‘dannata’ operosità del paese e si concede una digressione sul sale, sulle sue virtù e sulla bellezza dei bagliori delle statue che illuminano il paese d’estate. Questa divagazione serve a chiarire le premesse storiche e antropologiche della storia, la determinazione di quanti si sacrificano in miniera, il disincanto dei vecchi e l’impazienza di quelli che finiranno per lasciarsi trascinare dal giogo della violenza. Da questo momento in poi sarà un costante alternarsi di parti raccontate dal narratore e di stasimi cantati, in cui il coro rende manifeste le contraddizioni e gli strazi di Regalpetra. L’intermittenza fra passato e presente, propria del romanzo di Savatteri, ritorna anche nel testo-spettacolo, seppur variata grazie alle inserzioni in musica, e contribuisce ad assegnare ritmo e colore all’azione. L’escalation mafiosa viene resa sul piano testuale attraverso la grana del discorso del cantastorie (aspra e dura nel rievocare i fatti) e i timbri dei frammenti corali, mentre sul versante performativo tutto è affidato a un sapiente gioco di luci (che degradano dal rosso al violetto), nonché agli attenti movimenti coreografici: Pirrotta orchestra con grande attenzione le scene, puntando su sicuri effetti di pathos solo a tratti ‘alleggeriti’ da qualche incursione carnevalesca.

La dialettica fra mafia e ritualità, che nella Ballata delle balate veniva declinata sia a livello tematico sia a livello retorico, qui viene traslata al solo orizzonte estetico ma tale slittamento non riduce di molto l’efficacia della relazione almeno per un paio di ragioni. La prima riguarda l’occasione della deriva criminale del paese: l’assalto fatale, quello che avrebbe dato il via al montare della guerra fra cosche, viene compiuto infatti il giorno della ricorrenza della Madonna del Monte, durante la processione e il festino di piazza; una scelta audace, provocatoria perché incrina il vincolo di protezione che fin dal ‘battesimo’ lega gli affiliati alle leggi divine. L’uccisione di Gagliardo e di Gati irride cioè il rispetto (e la proficua convenienza in termini di status e potere) che da sempre unisce le famiglie di Cosa Nostra alle feste religiose, secondo precise strategie più volte indagate da storici e sociologi; la scelta di un’esecuzione plateale, in un giorno consacrato alla Madonna, vanifica e insieme rinsalda il nodo tra culto e violenza. La seconda ragione per cui Quei ragazzi di Regalpetra partecipa alla costruzione di un immaginario devoto riguarda invece il piano simbolico e soprattutto gli apparati visivi e coreografici dispiegati in scena. Pirrotta indugia su quadri rosso sangue, su precise simmetrie fra volumi e stoffe, su apparati che costantemente richiamano la ritualità della tragedia senza escludere implicazioni antropologiche. La sua Sicilia non è mai uno spazio chiuso, immobile e remoto, ma si configura come isola plurale, capace di accogliere e ricodificare suoni e immagini provenienti da altre latitudini.

La strage del luglio del 1991 decreta la rottura di ogni equilibrio e fa sì che lo spettacolo assuma il tono della catastrofe. C’è un elemento, fra gli altri, che rende manifesto il precipitare degli eventi, l’ingresso nel tunnel della violenza: si tratta dell’epifania di un personaggio, interpretato da Nancy Lombardo, che raffigura l’anima bambina di Regalpetra. Non appena il narratore pronuncia le terribili parole «Regalpetra è paese di mafia», l’atmosfera si fa livida, una luce bluastra avvolge la scena e la bambina comincia a danzare tenendo in mano un bambolotto; dopo qualche attimo ha inizio un crudele rituale di morte simbolica, la donna-bambina distrugge in pezzi il giocattolo, gli strappa perfino la testa, mimando così un inquietante sparagmos. Il macabro assalto al corpo inerte della bambola è la chiara proiezione del contagio della violenza, dell’inarrestabile fiume di sangue che sta per riversarsi in ogni angolo. Alla fine dello spettacolo la bambola sarà ricomposta e appesa alla parete di fondo della scena: nonostante l’offerta votiva è difficile credere in un happy end.

Non c’è lieto fine, infatti, perché è sempre il sangue a condensare gli umori del teatro civile di Pirrotta fin dal Canto di Malaluna, che qui ritorna amplificato dalla potenza del coro, in contrappunto alla voce del narratore. La catena di omicidi che sconvolge il paese è rievocata da una convulsa tirata di fiato del performer, a cui si sovrappone il montare di un parossistico vocalizzo, che ripete senza tregua «Sangu chiama sangu». La ‘moderna tragedia greca’ dell’attore-autore reca con sé la rovina dei luoghi e della carne, lo scempio di corpi scannati o sciolti nell’acido.

In ultima analisi in Quei ragazzi di Regalpetra l’ingegno drammaturgico e registico di Pirrotta interviene a rimodellare l’architettura diegetica di Gaetano Savatteri conferendo a essa una forma che ben si adatta al luogo di destinazione scenica (l’anfiteatro romano di Catania, dove lo spettacolo debutta il 16 giugno del 2011). L’omologia fra spazio e azione non è casuale, ma corrisponde a una precisa idea di teatro della polis, in cui il pubblico è chiamato a scommettersi nella costruzione di un’identità condivisa. In ballo c’è il riconoscimento del valore pedagogico dell’arte, della sua capacità di incidere sul reale, anche solo per il fatto di raccontarlo, di metterne in scena l’orrore.

Materiali

Per saperne di più:

Saggi in volume

  • S. Rimini, Sangue chiama sangue, in Ead., Le maschere non si scelgono a caso. Figure, corpi e voci del teatro-mondo di Vincenzo Pirrotta, Corazzano (PI), Titivillus, 2015, pp. 159-166.

Recensioni

  • S. Barone, Vincenzo Pirrotta. Quei ragazzi di Regalpetra, www.alucispente.blogspot.it, 27 giugno 2011.
  • L. Faraci, Pirrotta dà ritmo a una storia di mafia, «la Repubblica», ed. Palermo, 18 giugno 2011.
  • M. Giordano, Quei ragazzi di Regalpetra, www.drama.it
  • M.E. Giannetto, Regalpetra, universo di quei ragazzi di vita, «universitinforma», aprile 2011.
  • M.E. Giannetto, L’universo di quei ragazzi di vita, http://www.blumedia.info/, 13 giugno 2011.
  • G. Landolfo, «I ragazzi di Regalpetra», racconto di una Sicilia antica tra violenza e riscatto, «Corriere del Mezzogiorno», 17 giugno 2011.
  • A. Lunetta, “Quei ragazzi di Regalpetra” di Pirrotta al Teatro greco-romano di Catania: la scelta tra legalità e mafia, www.recensito.net, 22 giugno 2011.
  • P. Pesce, L’anima, lo strazio, la voce di un paese mortificato al teatro greco-romano di Catania, «L’Alba. Arte cultura Società», agosto 2011.
  • A. Pizzuto, Quei ragazzi di Regalpetra, www.sipario.it, 23 giugno 2011.
  • V. Raffa, Le contaminazioni e i pugni di Pirrotta: cunto, classici e denuncia civile, «La Sicilia», 22 giugno 2011.
  • s. a., Sangu chiama sangu a Regalpetra, www.ilquaderno.wordpress.com, 18 giugno 2011.
  • L. Timpanaro, Quei ragazzi di Regalpetra, www.loschiaffo.org, 2 luglio 2011.
  • B. Tutino, Savatteri e Pirrotta: voci da Regalpetra, www.dietrolequinteonline.it, 14 luglio 2011.