Curatore: Stefania Rimini

Vincenzo Pirrotta
Nota biografica
Le radici del teatro-mondo di Vincenzo Pirrotta
Vincenzo Pirrotta spicca nel panorama contemporaneo per la potenza del suo corpo-voce e la forza della sua immaginazione drammaturgica. Il suo percorso artistico ha all’attivo una serie di spettacoli-evento (Eumenidi, La sagra del signore della nave, La ballata delle balate, Diceria dell’untore, Sacre-stie), capaci di aggiornare le consuete dinamiche del modello attore-autore e di consolidare processi di ibridazione fra linguaggi e culture diverse.
Grazie a una formazione sui generis presso l’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa e la scuola-bottega di Mimmo Cuticchio impara a intrecciare l’eredità del mito greco con il battito misterioso e antico dell’opera dei pupi. La sua storia d’attore-autore ha però inizio tra le zolle di terra bruciata della campagna di Partinico, e ancora lungo la linea dell’orizzonte, dove si perdono le reti dei pescatori: l’idea di una Sicilia mitica, selvaggia, arcaica appartiene già all’immaginario del giovane Pirrotta, per cui ogni luogo diviene fucina d’incanti, gioco vorticoso di riflessi e ombre.
Artefice, insieme a Emma Dante, Davide Enia, Tino Caspanello, della nuova onda della drammaturgia siciliana, Pirrotta alterna la creazione di partiture originali (dalla trilogia I tesori della Zisa fino a…
Sacre-stie, passando per All’ombra della collina, Malaluna, La ballata delle balate, La grazia dell’angelo), con la ripresa di opere cardine della letteratura isolana, contribuendo alla elaborazione di un dialetto che diviene col tempo formidabile lingua scenica.
Ciò che tiene insieme scritture e riscritture è la perenne oscillazione tra riso e pianto, luce e lutto, insieme a una carica patetica che spesso si trasforma in umor nero. La sua è una drammaturgia ‘minerale’, capace di scavare la lingua attraverso il richiamo agli elementi naturali che compongono la fibra ctonia dell’isola. La terra, l’acqua, il sale, lo zolfo e il sangue sono i reagenti di un’immaginazione potente, sostenuta da una ricerca linguistica rigorosa. Pirrotta va così componendo un teatro ‘chimico’, in grado di distillare memorie e caratteri, vissuti e cronache, suoni e ritmi di un tempo (passato presente e futuro) sempre in bilico fra tradizione e sperimentalismo. I testi più robusti, di recente raccolti in volume, testimoniano l’inquieta appartenenza dell’autore al ventre di Palermo (e della Sicilia tutta), la voglia di non arrendersi agli strappi e alle ferite della storia.
Il teatro, allora, è per lui «navutru munnu» («un altro mondo»), una camera delle meraviglie ma soprattutto lo spazio in cui si costruisce l’identità del singolo e la coscienza della comunità. Fin dalle prime prove, Pirrotta dichiara infatti di aver scelto l’arte della scena come via dell’impegno, cioè come puntuale strategia di sopravvivenza all’inferno di una provincia soffocante, soprattutto per le tante infiltrazioni criminali. Il suo può dirsi certamente un ‘teatro di guerra’, cioè un linguaggio aperto alle interferenze con il reale, pronto a ‘reagire’ alle ingiustizie, a denunciare l’orrore tramite la declinazione di temi universali e il ricorso a figure e forme del presente. È doveroso, allora, inserire Pirrotta nella folta schiera degli autori ‘civili’, con cui condivide la responsabilità della testimonianza, la scelta della parresìa.
La vocazione ‘politica’ dell’attore di Partinico si declina soprattutto in due ‘modi’ accomunati dal medesimo afflato ma caratterizzati da specifici pattern retorico-formali. Il primo adotta il mito come metafora del presente, ricavando all’interno di plot già codificati un ‘cantuccio’ in cui far confluire gli umori del proprio tempo, i reflussi di una coscienza inquieta. Succede ad esempio nel finale di Eumenidi, quando il coro – guidato da Pirrotta – intona il lamento della giustizia, denunciando la crisi di valori di una società che ‘digerisce’ la guerra mangiando davanti alla tv, che non sa più difendere l’onore degli affetti, i legami di sangue. Il secondo modo riguarda la rappresentazione diretta di temi civili, desunti da fatti realmente accaduti ma reinventati secondo generi e stili diversi. All’interno di questo modo ritroviamo due opere che appartengono a momenti distinti dell’itinerario artistico di Pirrotta ma che condividono l’urgenza di misurarsi con l’odore di strage del presente.
La ballata delle balate e Quei ragazzi di Regalpetra sono dedicate alla messa in figura della brutalità mafiosa, motivo caro all’attore che non si lascia mai sfuggire l’occasione di denunciarne l’orrore. La ‘peste siciliana’ viene rappresentata attraverso una fitta rete si segni e simboli, che lasciano emergere una ritualità profonda, irta di suoni e di immagini che ‘bruciano’. Raramente la rappresentazione scenica della mafia ha saputo coniugare devozione e violenza come in queste opere, che pertanto si impongono all’attenzione di un pubblico consapevole e maturo.
Stefania Rimini